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Cinema

“Venere in pelliccia”: un viaggio introspettivo nel sadomasochismo

Non solo “50 Sfumature di Grigio”: un esempio di maestria registica i cui cardini girano attorno alla vendetta femminile e al rovesciamento dei ruoli, conditi dalla frizzante ironia tipicamente polanskiana.

La trama

In un decadente teatro parigino, a Thomas Novacheck, drammaturgo e aspirante regista di teatro, esausto dai fallimentari provini a cui ha dovuto assistere senza un positivo esito finale, viene chiesto, fra suppliche e imprecazioni, di assistere ad una ultima audizione per il ruolo della protagonista della pièce teatrale Venere in pelliccia.

L’intrusa in questione è Vanda Jordan, donna apparentemente rozza e volgare, vestita con una succinta guaina di pelle e con il collo adornato da un collare per cani. Thomas accetta di farle il provino, o meglio, è costretto ad accettare per via delle burbere insistenze della donna. L’atteggiamento del drammaturgo lascia, non troppo sottilmente, intendere i suoi pensieri e la sua scarsa propensione nel perdere ulteriore tempo.

Nonostante le aspettative, Vanda sorprende piacevolmente Thomas, dimostrandosi un’ottima attrice, capace di immedesimarsi pienamente nel suo personaggio, anche troppo. Incredulo, sbalordito e meravigliato, lo sguardo di Thomas verso l’attrice cambia radicalmente, lasciandosi affascinare dalle sue doti recitative, e non solo.

La tensione erotica è sempre più palpabile, in un crescendo di sguardi e prove di seduzione. Thomas si libera della sua maschera di borghese intellettualoide e si lascia condurre da Vanda in un pericoloso gioco pieno di insidie. Vanda, affatto ingenua e provinciale come inizialmente sembra essere, si rivela in tutta la sua potenza. Investita del potere divino di Venere si trasforma in una sadica baccante che, velata solo da una morbida pelliccia, scatena la sua feroce danza attorno all’inerme Thomas, legato ad un cartonato dai chiari richiami fallici. La vendetta è compiuta.

Il film di Polanski

Venere in pelliccia, lungometraggio del 2013, è liberamente ispirato all’opera teatrale dell’americano David Ives, il quale ha curato anche la sceneggiatura del film insieme a Roman Polanski. Il riadattamento del drammaturgo americano è, a sua volta, la messa in scena dell’opera letteraria omonima di Leopold von Sacher Masoch, Venus im Pelz.

Il lungometraggio inizia in medias res e sin da subito assistiamo a un gioco a due vissuto e interpretato nel perdurante intreccio tra realtà e finzione. Un crescendo di intensità recitativa nel quale i due unici protagonisti si affidano ora al copione della pièce, ora al proprio tumultuoso divenire emotivo per comunicare intenzioni e desideri contrastanti. La crescente attrazione dell’uomo è sempre più difficile da celare nei tormenti del personaggio letterario. La presa di potere della donna è sottile quanto inesorabile: cavalcando la trama dell’opera da portare in scena, mette in atto una seduzione fatta di sguardi e toni che eccitano e distanziano, infiammano e vanificano le passioni. I rapporti di dominio si sovvertono: Thomas passa dall’avere il ruolo dominante del regista ad essere sedotto e soggiogato da Vanda.

E l’Onnipotente lo colpì, e lo consegnò nelle mani della donna.

Dal film

Polanski scombina l’ordine degli addendi e il risultato cambia perché si dirama nella molteplicità. Il reale è un gomitolo inestricabile, lo spettatore è smarrito, non sa afferrare la verità e disconnetterla dalla dimensione onirica in cui il regista lo fa cadere. È proiettato in una dimensione parossistica, alla quale corrisponde l’estraniazione, in senso brechtiano, dello spettatore, dalla tangibile tensione erotica sino alla sur-realtà onirica. Dimensione sottolineata da un cambiamento della luce, che ha il suo apice catartico nel turbinio dionisiaco della danza finale, con il protagonista ormai vittima di un carnefice donna.

Dominati e dominatori

Il palco del teatro diventa effettivamente scena di guerra fra vittima e carnefice, dove mutano gli assetti emotivi e il dominato sperimenta con metamorfosi imprevedibile il ruolo di dominatore, anzi di dominatrice, scoprendosi preda di una giunonica voluttà che insegue la misoginia quasi insita nella sottomissione così visceralmente implorata da Thomas.

«E l’Onnipotente lo colpì, e lo consegnò nelle mani della donna» è l’epigrafe del romanzo che ritorna come elemento cardine del film. Mentre la donna sovrappone l’erotismo all’ironia aggressiva e alla sapiente lucidità manipolatoria, conservando il controllo sulla relazione anche quando sembra cederlo assecondando l’assunzione del ruolo femminile da parte dell’altro.

La prova attoriale e registica

La grandezza di Venere in pelliccia è data dalla straordinaria prova attoriale dei due interpreti. Lui, Mathieu Amalric, un perturbante alter ego di Polanski che trasformandosi in figura femminile ne ripropone i caratteri espressivi allucinatori de L’inquilino del terzo piano. Lei, Emmanuelle Seigner, una superba profusione di sfumature psicologiche che spaziano dal cinismo all’impulso iracondo fino al gioco compiaciuto.

Perché Polanski non sia riuscito a resistere alla tentazione di presentare al pubblico anche una sua versione della Venere in pelliccia risulta piuttosto chiaro: come resistere alla occasione di poter fare un lungometraggio il cui fulcro rappresentativo ruota attorno ad un palco teatrale e due soli protagonisti? La seduzione principale, infatti, viene dalla possibilità di adattare la pièce girando interamente in uno spazio chiuso che, per l’ex-allievo della scuola di Lodz, rappresenta il limes entro cui la natura umana, quella inconscia e malcelata, inizia a galleggiare in superficie, sospinta dalle correnti della conflittualità tipica dell’indole umana.

Il dramma da camera

É l’homo homini lupus che si concretizza tra quattro mura, mentre appena là fuori continua a scorrere la società, i suoi condizionamenti, le sovrastrutture, la corruzione dell’identità. Il dramma da camera è, dunque, il genere entro cui il regista estrinseca più coerentemente le sue ossessioni, fra le quali appunto «l’acrofobia, patologia esclusivamente polanskiana». Va ricordato infatti che la tendenza a mostrare personaggi che, isolati dal resto del mondo esterno, tendono ad aggredirsi reciprocamente in una operazione di crescente disvelamento delle rispettive ipocrisie ed esibizione della propria indole, spesso violente e miserabili, è presente nel cinema di Polanski dal suo esordio con Il coltello nell’acqua, e che ritroviamo anche nel più recente Carnage.

C’è di più: dato il rilevante scarto sociale esistente fra l’ostentata serietà borghese di lui e il kitsch a dir poco grottesco e scabroso di lei, Vanda potrebbe essere considerata, da una lettura connotata dalla dimensione socialista, come l’incarnazione di una vendetta culturale. Il basso rovescia l’alto, lo smaschera, lo denuda e lo umilia. Vanda non è venuta per filosofeggiare, ma per smontare la personalità di Thomas e metterne a nudo la miseria che ne è al centro e intorno alla quale egli ha costruito la sua carriera e la sua reputazione. Vanda non è una consolatrice, ma una vendicatrice, e sembra proprio che attraverso di lei si scateni una potenza di origine sacra, che si presenta lasciandosi anticipare dalla pioggia e dai fulmini coi quali si apre il film.

Di Oana Ochiana

Historian of Art and History of Religion student

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