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Cinema e Musica

Quando l’isolamento è autoindotto

Il dilagare del contagio da Covid-19 ha imposto un isolamento forzato di massa. Ma cosa succede quando tale isolamento è una scelta? Proviamo a rispondere prendendo in analisi due film: La Grande Abbuffata e Il buco.

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Ad un mese dall’attuazione delle misure di contenimento sociale, l’entusiasmo e l’ottimismo degli italiani che organizzavano flash mob canterini sui balconi pare essersi fatto da parte per lasciare spazio a sensazioni tipiche di una quotidianità ormai capovolta e appesantita. Lo stile di vita pre-Covid-19 sembra un ricordo lontanissimo di qualcosa che, di fatto, non ci appartiene più. Gli psicologi sono infatti concordi nell’affermare che uno stato ansiogeno e “di allerta”, potrebbe accompagnarci anche dopo il distanziamento sociale forzato, arrivando a sfociare in un vero e proprio “disturbo post traumatico da stress”. Secondo il parere dello psichiatra e psicoterapeuta Piero Cipriano superare la soglia delle tre settimane di isolamento sociale metterebbe a dura prova la psiche di chiunque, non solo di quei soggetti che già soffrono di determinate patologie mentali. Julianne Holt-Lunstad, psicologa e ricercatrice alla Brigham Young Universitym (Utah) dichiara invece su Science che da un’analisi del 2015 degli studi pubblicati nella letteratura scientifica è emerso che un isolamento sociale cronico potrebbe aumentare il rischio di mortalità del 29 per cento.

Coronavirus a parte, l’isolamento è da molto tempo parte integrante della nostra società perché è proprio su tale “espediente” che la civiltà occidentale basa la punizione prevista per il cittadino che infrange la legge. Ma cosa succede quando l’isolamento è autoindotto in vista di un obiettivo più alto?  Molto probabilmente dipende dall’obiettivo, ma è altrettanto probabile che il percorso, anche nel caso di un esilio volontario, presenti qualche difficoltà. 

Come spesso accade, anche in questo caso il grande cinema ci può aiutare a compiere un’analisi della realtà. Prendiamo in esame due film, all’apparenza piuttosto diversi, lontani cronologicamente, ma entrambi figli di un sistema sociale ed economico simile: La grande abbuffata (1973), di Marco Ferreri e Il buco (2019), di Galder Gaztelu-Urrutia. Quali sono le assonanze? I due lungometraggi  presentano la vicenda di quattro persone, anche se nel film spagnolo il vero protagonista, che seguiamo con continuità dall’inizio alla fine, è sostanzialmente uno: Goreng, accomunabile ai quattro protagonisti del film di Ferreri dalla scelta di compiere un allontanamento volontario dalla società. Ma procediamo con ordine.

La pellicola del 1973 ci mostra quattro amici borghesi che, stufi della vita, si ritirano in una villa non lontana da Parigi per porre fine alla propria esistenza. Elemento che rende il lungometraggio estremamente affascinante è il mezzo che i quattro scelgono per togliersi la vita: il cibo. Ogni giorno, ad impegnative cucinate seguono abbondanti ed altrettanto impegnative abbuffate; essi mangiano, continuamente e avidamente, assolvendo al compito originario in maniera solennemente rigorosa. Riempire bulimicamente i loro corpi, come fossero sacchi vuoti che si sovraccaricano pericolosamente, porta con sé un piacere talmente eccessivo e straripante, da sfociare nel suo opposto: l’annullamento di qualsiasi desiderio. «Il principio di piacere si pone al servizio delle pulsioni di morte», scriveva Freud.

Ed è sempre attraverso una grande bouffe che anche Il buco entra “nel vivo” della questione. Il film mostra la reclusione volontaria e temporanea (sei mesi) di un uomo che vuole smettere di fumare. La vicenda è ambientata presso una prigione costruita secondo una sorta di Panopticon invertito – e mutilo –  con una torre che si estende in profondità verso le viscere della terra. Le celle hanno al centro un buco, appunto, di forma rettangolare che serve a permettere ad una pedana di passare da un livello all’altro. Su di essagiace una copiosa distesa di cibo prelibatissimo, impiattato alla perfezione e disponibile solo per il tempo di due minuti. A fare da contraltare all’oscurità e al grigiume dei sotterranei, vi è il famigerato “piano zero”, sopra a tutti gli altri, in cui una brigata da cucina lavora instancabilmente. Il candore delle loro giacche, la perfezione dei loro gesti e la puntigliosa ricerca di un impiattamento impeccabile viene mostrata dal regista con la patina iperrealista di uno spot televisivo.

Contrariamente a La grande abbuffata, nel film iberico i protagonisti mangiano per scampare alla morte, anzi si abbuffano, approfittando di quei due minuti in cui la piattaforma è al loro livello, per ingurgitare quanto più cibo possibile, all’insegna di un individualismo esasperato che non tiene conto di coloro che si trovano ai piani inferiori.

Anche in questo brillante lungometraggio istinto di vita e istinto di morte camminano  a braccetto, ma forse in questo caso la pulsione di vita riesce ad adempiere al suo dovere moderatorio e a far prevalere, alla fine, la vita, grazie e per mezzo della morte. Ferreri, al contrario, mostra il dramma delle due passioni irrimediabilmente slegate che altro non portano se non ad  una autodistruzione annichilente. Il cibo rappresenta ancestralmente il mezzo che dovrebbe assicurare all’animale la sopravvivenza, ma oltre ad essere una necessità, è indubbia fonte di godimento per l’organismo sano. Il cibo è quindi metafora di una ricchezza che se mal gestita può sconfinare in una ridondanza pericolosa, non solo per chi non ne possiede, ma anche, in egual misura, per chi invece ne possiede troppo.

La profonda critica sociale dei due film è quanto mai attuale e necessaria, lo era nel 1973 e lo è più che mai oggi, mentre combattiamo contro una pandemia che ha palesato tutte le contraddizioni della nostra impostazione sociale e politica: proprio come ne Il buco, molti di noi subiscono la tirannia di chi sta ai vertici di un sistema sociale basato su di una salda verticalità, composta da classi sociali che sono sempre più simili a caste.

Anche di fronte a questioni di vitale importanza, in cui recarsi sul luogo di lavoro in questo periodo può significare andare incontro al contagio, i nostri “piani zero” stabiliscono che vi sono persone che non possono venire meno a questo imperativo categorico. Chi ha la sfortuna di stare “ai piani bassi” deve lavorare sodo senza possibilità di replica (perché da soli si è più deboli, come capisce il protagonista del film Il buco); il tutto per portare a casa solo una piccola quantità della torta (proseguendo il parallelismo con il cibo). 

C’è anche chi questa possibilità non ce l’ha – quella di rischiare la propria salute per andare a lavorare – e che di torta, quindi, non ne vede manco l’ombra. Forse perché le fette più grandi spettano a qualcuno che ha la fortuna di risiedere ad un livello più alto e che di razionare il dolce, affinché ve ne sia per tutti, non ne vuole proprio sapere.

Di Silvia Contorno

Mi occupo di media audiovisivi e semiotica dei media.

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