Il quarto stato di Pellizza da Volpedo è un dipinto ad olio su tela del 1901, conservato al Museo del Novecento di Milano. Divenuto l’icona dei lavoratori e simbolo di ciò che la giornata del primo maggio vuole significare, raffigura un gruppo di braccianti che marcia “come una fiumana” in segno di protesta.
L’opera è frutto di una prolungata e complessa ricerca da parte dell’artista che già nel 1891 scrive:
La questione sociale s’impone; molti si son dedicati ad essa e studiano alacremente per risolverla. Anche l’arte non dev’essere estranea a questo movimento verso una meta che è ancora un’incognita ma che pure si intuisce dover essere migliore a petto delle condizioni presenti.
Dopo le prime versioni (gli Ambasciatori della fame e la Fiumana) Pellizza decide significativamente di intitolare la versione definitiva dell’opera Il quarto stato: «espressione introdotta durante la Rivoluzione francese da alcuni esponenti delle correnti più radicali per designare gli strati popolari subalterni, in contrapposizione alla borghesia (il terzo stato); con lo sviluppo del movimento operaio, la locuzione è stata adoperata, soprattutto nel sec. 19° e nei primi decenni del Novecento, per indicare il proletariato» (Treccani).
L’importanza del dipinto risiede nel fatto che, per la prima volta nella storia dell’arte italiana, un pittore sceglie di rappresentare l’ascesa del movimento operaio come fatto rilevante nella vita nazionale del paese.
A dare eco pressoché immediato all’opera non sono le sale espositive bensì la stampa socialista. Proprio il giorno del 1° maggio, Il quarto stato viene riprodotto da riviste quali l’Unione (1903), L’avanguardia socialista (1904) e così via.

I fascino del dipinto
Per quanto riguarda il mondo dell’arte, il dipinto viene prima criticato, per poi conoscere fortune alterne, fino ad essere universalmente riconosciuto. Non facile insomma, per Il quarto stato farsi strada tra i galleristi, l’opinione pubblica e la comune sensibilità. D’altra parte, chi prima di allora, avrebbe acceso i riflettori verso la consapevolezza di classe di un comune bracciante?
Tema caldo che un po’ si perde nelle attuali rievocazioni che, come tutte, rimandano alla lotta per i diritti, dove ogni conquista è ormai data per scontata. Ed ecco che Il quarto stato invade le bacheche social e, come le foto di Sepulveda dopo la morte o le immagini di lotta femminista, il like – svuotato di un vero riconoscimento politico e sociale – è assicurato. Meglio così che dimenticare.
Il quarto stato e Novecento
Il fascino del dipinto, lungi dal spegnersi, si riverbera anche nel cinema. Il dipinto di Volpedo fa da sfondo ai titoli di testa di Novecento, pellicola del 1976 di Bernardo Bertolucci. La trama del film narra le vite di due uomini appartenenti a due classi sociali molto diverse (un proprietario terriero e un contadino). Sullo sfondo, i conflitti sociali e politici dell’Italia dei primi del Novecento. Scelta perfettamente in tema, al limite della didascalia.

Il quarto stato e Il fascino discreto della borghesia
Ben diversa è la rievocazione (voluta o non) che ne fa il regista spagnolo Luis Buñuel. Il film del 1972 Il fascino discreto della borghesia (Le charme discret de la bourgeoisie), critica pungente e arguta alla società borghese, è contrappuntato da un’immagine che ricorda moltissimo il dipinto di Da Volpedo. A differenza dei lavoratori del quarto stato, in marcia verso una causa ben definita, quella dei personaggi di Buñuel è però un’avanzata infinita, senza obiettivi né meta, e il suo ricorrere ciclico all’interno del film ne sottolinea l’inconcludenza.

Rievocazione blasfema? Sicuramente sintomo che i tempi sono cambiati e che una nuova classe che viene da chissà dove e avanza verso chissà cosa, semplicemente spinta dai propri impulsi, dalla noia, e da un desiderio di possesso senza soddisfazione, è altrettanto meritevole della nostra attenzione. La realtà è più complessa di quello che crediamo e l’iconografia è fatta per essere assunta, riletta, distrutta e ricucita continuamente.
Copertina: Il quarto stato, Pellizza da Volpedo (1901), Museo del Novecento, Milano