Cos’hanno in comune un’assistente personale, una domestica e una famiglia coreana? Nulla, se non la loro condizione sociale e la scaltra abilità di manipolare l’altro. Tutti appartenenti a un ceto medio- basso e tutti desiderosi di compiere la propria scalata verso il successo.
La liaison che collega i lungometraggi è una manipolazione ai limiti della sociopatia in una dialettica servo-padrone. Desiderio di riconoscimento e volontà di sopraffazione sono attributi costanti di tutti i protagonisti. Nello specifico, li accomuna la mancanza di etica sociale, l’incapacità di provare rimorso o senso di colpa, la disonestà truffaldina e menzognera.
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La dialettica servo-padrone è un concetto chiave della Fenomenologia dello spirito di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, la quale descrive l’incontro di due esseri autocoscienti che danno vita a una «lotta mortale» prima che uno schiavizzi l’altro, per poi scoprire che la sua superiorità non gli assicura il controllo del mondo che aveva tanto agognato. La coscienza del servo, pur apparentemente negata dalla condizione di servitù in cui soggiace, in realtà si invera tramite il lavoro servile e si manifesta tramite la negazione della negazione del suo ruolo. È il rovesciamento delle parti. Il servo, imparando a fare ciò che il padrone disimpara a fare, diventa indipendente da quest’ultimo, mentre lo stesso dipende ora dal servo.
Eva contro Eva (1950), Joseph L. Mankiewicz

Bette Davis veste qui i panni di Margo Channing, una celebrità teatrale all’apice della sua carriera, che ha la sfortuna di incontrare un’ingenua ammiratrice, interpretata da Anne Baxter nelle vesti di Eva Harrington. Ma le intenzioni di Eva sono tutt’altro che genuine e la sua ammirazione per Margo cela secondi fini: la giovane, infatti, si infiltra piano piano nella vita, sia pubblica che privata, dell’attrice, manipolando il suo entourage e tramutandosi in poco tempo, da semplice assistente personale a icona nascente. Sofisticato e finemente diretto, Eva contro Eva rappresenta la quintessenza della malsana ambizione conseguita attraverso la manipolazione e il rovesciamento dei ruoli.
The Housemaid (1960), Kim Ki Young

Spesso ci si riferisce a The Housemaid come a uno dei migliori film coreani di sempre. Si assiste a una storia dalle sottili manipolazioni tessute nell’ombra di un ambiente domestico. Intenso ed elegante, The Housemaid segue la relazione fedifraga tra una domestica e il suo padrone, sposato e padre di due bambini. Lei, una giovane e seducente femme fatale, è sicuramente uno dei villain meglio riusciti della cinematografia coreana: attraverso subdole e svilenti macchinazioni tenta di accaparrarsi il posto di moglie e padrona di casa. L’essenza claustrofobica del lungometraggio si rivela nei dialoghi brevi e nella regia che privilegia gli interni. Nuovamente, si ha a che fare col ribaltamento sociale ottenuto soggiogando l’altro.
Il servo (1963), Joseph Losey

Un giovane e affascinante James Fox nei panni del benestante Tony e un Dirk Bogarde, più in forma che mai, nei panni del domestico Barrett, sono i protagonisti di questo capolavoro di marca britannica. La trama segue lo sviluppo del rapporto fra i due e la dinamica manipolatoria messa in atto da Barrett al fine di vestire il ruolo del padrone. L’inizialmente timido domestico, infatti, si insinua rapidamente nella vita dell’ereditiere: è lui ad arredare la casa, a regolare le abitudini di Tony, a influenzare la sua vita privata.
Resosi indispensabile, Barrett si mostra in tutto il suo dispotismo, rivelandosi un sociopatico manipolatore, nonché un rapace sessuale. Per mesi è rimasto nell’ombra in attesa di rovesciare i rapporti di classe e sovvertire le dinamiche di potere. Barrett mette in questione la gerarchia sociale e si chiede chi sia in realtà più potente, l’élite o la servitù. I claustrofobici spazi sembrano anticipare i primi capolavori di Polanski, Repulsione e L’inquilino del terzo piano, mentre il Dizionario Mereghetti definisce il film «un saggio sui rapporti di classe con la logica di un thriller», nel quale «l’atmosfera di sfascio e di decadenza è resa con uno stile barocco ma mai fine a sé stesso, e lo sviluppo dei rapporti tra i personaggi segue logiche imprevedibili ma spietate».
Il buio nella mente (1995), Claude Chabrol

Più cupi rispetto ai precedenti lungometraggi sono i toni di La cerimonie, tradotto in italiano col titolo Il buio nella mente. La cinepresa segue la storia di Sophie Bonhomme, domestica che viene assunta dai Lelièvre. Sophie, analfabeta, mentalmente instabile e dal passato tumultuoso, diventa amica di Jeanne, postina che condivide con la protagonista simili vicende burrascose. Dopo varie vicissitudini, la sociopatia delle due culminerà nell’omicidio dei Lelièvre, giustificato da un raptus di invidia nei confronti della loro vita apparentemente perfetta. Se negli altri film di questa rassegna si ha a che fare con un metaforico omicidio del padrone, con un tentivo di assorbire e ucciderne l’essenza interiore per poterne prendere il posto, qui si è di fronte a un omicidio fisico, senza una reale metamorfosi finale.
Parasite (2019), Bong Joon-ho
Parasite, vincitore della categoria “miglior film” e “miglior film straniero” agli ultimi Academy Awards, narra le vicende della famiglia Kim che prova a elevarsi socialmente iniziando a lavorare per la benestante famiglia Park. I sostrati interpretativi di Parasite sono molteplici, vista la sua complessa e raffinata sceneggiatura, ma uno dei principali rimane la manipolazione dell’altro nel tentativo di sovvertire i ruoli sociali: i Kim sognano una vita da signori, mentre i Park si appigliano alla loro posizione nella società per incrementare la propria ricchezza attraverso lo sfruttamento dei più deboli. Chi sono realmente i parassiti? – ci spinge a chiederci Bong Joon-ho.