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Fotografia

Narrazione cinematografica e cultura americana nella fotografia di Cristina Rizzi Guelfi

Parrucche bionde, colori saturi e atmosfere hitchcockiane, la fotografia di Cristina prima colpisce, poi angoscia, infine interroga.

Cristina Rizzi Guelfi è una fotografa autodidatta nata in Svizzera. Dopo la laurea ha conseguito un master di regia a l’EICAR, la Scuola Internazionale di Cinema e Televisione di Parigi. In seguito ha iniziato ad interessarsi alla fotografia, sperimentando sia nel campo del digitale sia in quello dell’analogico. Ha esposto a Roma, Milano, Torino e Parigi e alcune delle sue opere sono attualmente in esposizione.

Il primo dato che emerge con forza dalla fotografia di Cristina Rizzi Guelfi è una straordinaria propensione al racconto. Ogni immagine sottende una storia, ogni scatto appartiene ad una narrazione più ampia, assolutamente cinematografica. 

Dal racconto di un delitto in Murder, alla rappresentazione delle angosce in Phobia, le fotografie di Cristina Rizzi Guelfi si dispiegano naturalmente in forma seriale, proprio per la loro prossimità al succedersi dei frame. Il tutto è ambientato in un orizzonte visivo preciso e potente, caratterizzato da insolite parrucche bionde, colori saturi e riferimenti alla cultura visiva americana anni ‘50. Scelte che contribuiscono a far emergere il lato oscuro e grottesco della cosiddetta “normalità” (la cura della casa, la famiglia, la carriera, la bellezza ad ogni costo), aprendo inevitabilmente ad una riflessione su di essa.  

Ciao Cristina, grazie di aver accettato di scambiare quattro chiacchiere con noi. Ho scoperto la tua fotografia per caso, navigando su Tumblr, ed ho subito avuto la curiosità di conoscerti e di capire qualcosa in più del tuo lavoro. La prima domanda che mi piacerebbe porti è la seguente: quando hai iniziato a fotografare e quali sono stati i tuo primissimi soggetti?

I miei primi soggetti erano molto cupi, tinte scure quasi horror, un modo molto più lento e disordinato di vedere e sperimentare il mondo, il cinema e la cultura in generale. 

Cosa ha alimentato il tuo sguardo negli anni?

Più che altro è stato alimentato dal cinema. Sono attratta dai vecchi film e dai B-Movie dove l’assurdo è associato al quotidiano, dove i colori sono un elemento prioritario. Ho sempre trovato dell’umorismo nel banale associato all’assurdo, per questo motivo adoro Hitchcock che era un maestro nel creare un effetto inquietante in un ambiente familiare, come Kubrick. Shining è stato uno dei primi film che ho visto da adolescente, non avevo mai visto niente di più perfetto e immobile, con la capacità di combinare immagini così belle e visivamente sorprendenti con una trama davvero terrificante. 

In ogni tuo lavoro fa da protagonista un’insolita parrucca bionda mentre il volto del soggetto rimane celato. Perché questa scelta? 

In quasi tutte le mie foto le protagoniste sono le parrucche, le uso in sostituzione del viso perché credo che quest’ultimo eserciti una forte influenza sul soggetto. La modella deve essere disimpegnata o assente perché vorrei che l’attenzione fosse rivolta a quello che la fotografia vuole raccontare. 

Dream House, Plastic Woman e Dolls Valley: c’è un filo conduttore in questi tre progetti?   

In un certo senso sì. Sono legate perché credo che la superficialità, l’ostentazione dell’apparenza, rischia di diventare l’unica filosofia di questi anni. Una casa da sogno, la bellezza ad ogni costo, tutti vogliono essere perfetti e standardizzati, ma alla fine è l’imperfezione che rende autentici. 

Raccontaci della serie Phobia (e di qual è la tua paura più ricorrente).  

E’ nata per caso, leggendo un elenco di fobie. Mi sono resa conto che l’uomo d’oggi sembra essere sempre minacciato da se stesso, da ciò che lo circonda, ma ancor più, dal suo intelletto. E questa multiforme alienazione porta al dramma dell’esistenza umana contemporanea, che vive sempre più nella paura. Ho voluto contrapporre questa “angoscia” con l’ironia e il colore delle fotografie associandole ad un testo più cupo e surreale. La mia paura più ricorrente? Non saprei, forse di smarrire i miei cani:) 

I tuoi lavori sono un’esplosione di colori saturi. Che importanza hanno per te le scelte cromatiche? 

Il colore è diventato importante con il tempo, più che altro perché lo volevo contrapporre all’aspetto drammatico, una nota di fondo dark e un tocco di humor. La vita è piena di momenti in cui l’umorismo si fonde in tragedia e bruttezza in perfezione, e trovavo interessante fonderli insieme. 

Cosa ti affascina della cultura visiva americana?

Sono affascinata dall’artificio della cultura americana degli anni 50′. Ho una passione per le vecchie riviste come Better Homes and Gardens con le immagini di casalinghe che sbirciano nei frigoriferi o che stirano in completini perfetti con i loro capelli accuratamente scolpiti e sorrisi perpetui impressi con rossetto corallo. Nella cultura popolare, l’archetipo di queste caricature femminili bidimensionali si presenta come puramente superficiale e privo di qualsiasi sostanza stabilendo dei costumi sociali molto arretrati. Nelle mie fotografie spero di offrire un ritratto più potente della femminilità.  

Trovo Murder una delle tue serie più cinematografiche. Hai mai pensato, visti i tuoi studi e la tua spiccata inclinazione al racconto, di approcciarti alla regia?

Oh certo! Quello è un mio sogno, che prima o poi realizzerò appena troverò qualcuno disposto a seguire le mie malsane idee, dato che sarebbe sicuramente sulla linea di Russ Meyer o John Waters. 

Se dovessi scegliere una colonna sonora per le tue fotografie, quale sarebbe?

Ci sarebbero mille colonne sonore, difficile sceglierne una. Per ora, visto che l’ho citato prima, la colonna sonora di “Faster, Pussycat! Kill! Kill!” di Russ Meyer. 

Immagini courtesy of Cristina Rizzi Guelfi (Instagram)

Di Nicole Chioccariello

Più nouvelle vague, meno nouvelle cuisine. Creo contenuti digitali che sono tutti i libri che ho letto, i film che ho visto, le persone che ho conosciuto.
Instagram: @nicolevague.

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