Bibliofili di tutti i paesi, uniamoci! Catapultiamoci nel Medioevo fantastico di Italo Calvino, grande narratore italiano del XX secolo. Tra gli scritti di Calvino, vi proponiamo oggi la rilettura di quella grandiosa allegoria della contemporaneità che è la raccolta I nostri antenati.
Sotto l’armatura de Il cavaliere inesistente
Cominciamo da Il cavaliere inesistente, revival tutto moderno e tutto italiano dei cantari cavallereschi e del Don Chisciotte di Cervantes. Il romanzo si potrebbe definire come narrazione libresca della crisi di un’epoca. Come Chisciotte rappresentava la decadenza degli ideali cavallereschi ed il loro svuotamento di senso, così il protagonista del romanzo calviniano, Agilulfo, avverte di essere ancorato alle certezze della società dei suoi antenati (di qui il titolo della trilogia). Eppure è l’unico in grado di rispettare e mettere in pratica quei precetti, in un accampamento (microcosmo dell’opera), in cui quasi nessuno ormai li segue, se non con sussiego e per etichetta.
Agilulfo, però non esiste, ce lo dice già il titolo dell’opera, a rimarcare la crisi di cui si parlava poche righe fa. Calvino sembra dirci che, proprio come l’uomo di oggi, saldamente legato alle idee base della civiltà odierna, il cavaliere, solamente mascherato da uomo d’armi, è una mera categoria sociale. Agilulfo è un’immagine di sé, la sua sola esteriorità, da molti (forse troppi) apprezzato solo per la sua lucente e perfetta armatura, e considerato anacronistico e “pesante” dentro; da pochi altri stimato specialmente per quella parte di sé che non c’è, che è invisibile. Senza andare troppo oltre, si tratta proprio della nostra civiltà, giustamente e più volte definita civiltà dell’immagine. Civiltà che si ferma all’ostentazione della propria esteriorità e, spesso (meglio non fare troppe generalizzazioni) si ferma agli apprezzamenti di “armatura”.

Agilulfo è l’eccezione, anzi la rarità, nel suo campo, pullulante di cavalieri sempliciotti, seppure dai nomi magniloquenti e trionfanti. È considerato solo per la veste che porta, per il ruolo ricoperto. Agilulfo è un burocrate meticoloso, in fondo, ed è il primo a credere, se vogliamo parlare pirandellianamente, nella maschera che indossa. Ma la sua devozione alla cavalleria, sebbene possa sembrare folle e altrettanto ossessiva come quella di Chisciotte, non è una questione di simbologia, di riconoscimento in una categoria sociale, è un sentimento d’appartenenza vero e proprio. Al contrario di quanto non avvenga per gli altri paladini.
Calvino, col Cavaliere inesistente sembra volerci suggerire che un equilibrio si è interrotto, che qualcosa nel nostro secolo si è evoluto (o forse involuto?). In quel passato fiabesco, che l’autore dipinge con ironia leggera, sembra ancora possibile l’ideale della kalokagathìa degli antichi Greci: essere belli fuori equivale all’esserlo dentro. Questa nostra era è quella della scoperta di un’esteriorità, che non coincide necessariamente con la bontà interiore degli antichi, degli “antenati” appunto. È un’esteriorità che spesso è sfruttata fino alle estreme conseguenze, senza che comunichi niente, senza che sia finalizzata a nulla.
L’unità spezzata de Il visconte dimezzato
Dal Medioevo al Settecento, con Il visconte dimezzato ed Il barone rampante, Calvino rimarca che il processo di frammentazione culturale, di rottura con gli “antenati”, non riguarda solo un preciso momento storico, ma si è sviluppato con le coscienze di moltissime epoche. Fino a noi, ciliegine di una torta a mille piani.
Il visconte diviso a metà dalla palla di cannone è l’intellettuale dotato di un manicheo libero arbitrio. Colpito in pieno petto, sede dell’anima, si ritrova scisso tra una sfera buona ed una cattiva: una sinistra, quella del cuore, ed una vile destra (c’è da vedere in questo un riferimento politico non troppo implicito?). Insomma, ancora una questione di un’esteriorità che si divide dall’interiorità, di un passato che non può più tornare glorioso come prima, di un’unità che si è spezzata in una grande varietà.
Il visconte, ormai polarizzato, non può che trovare alla fine della divertente storia un compromesso bilanciato di unità. Come ci dice lo stesso autore: «Quando ho cominciato a scrivere Il visconte dimezzato, volevo soprattutto scrivere una storia divertente per divertire me stesso e possibilmente per divertire gli altri; avevo questa immagine di un uomo tagliato in due ed ho pensato che questo tema dell’uomo tagliato in due, dell’uomo dimezzato, fosse un tema significativo, avesse un significato contemporaneo: tutti ci sentiamo in qualche modo incompleti, tutti realizziamo una parte di noi stessi e non l’altra.»
Il barone rampante e la coerenza ritrovata
Il barone rampante è sicuramente il romanzo canonizzato di Calvino. La storia è quella della coerenza, dell’unione ritrovata, dopo la stesura del ’52 del “visconte”. Questa seconda opera, del ’57, narra della biografia bizzarra di Cosimo Piovasco di Rondò, personaggio che vive con uno status di letterale superiorità, non solo nobiliare e di nascita (che sembra ripudiare), ma specialmente di idealità. Appartato dal mondo esterno, un poco come noi (siamo stati in lock-down, tra l’altro), ha contatto col mondo esterno solo con la mente, senza spostarsi fisicamente dalla propria quotidianità.
Una trilogia fantastica, ma tutta reale, se letta con gli occhi del nostro tempo. Così, pare proprio che Calvino ci inviti a non scindere mai la nostra essenza: il nostro essere corpi, dall’armatura, la nostra realtà, dalla virtualità, le nostre idee, dalle nostre azioni.