Continuano i nostri approfondimenti sulla fotografia contemporanea e i diversi modi in cui viene a oggi interpretata. Attraverso il mezzo fotografico Davide Degano racconta storie individuali e collettive che appartengono al mondo globalizzato. La dimensione del viaggio, da cui scaturiscono gran parte dei suoi progetti fotografici, non conduce mai a una rappresentazione dell’esotico, del “lontano” o del sensazionalistico. Al contrario, il viaggio si afferma come occasione di conoscenza approfondita dei territori e delle diversità delle culture, che diventano “vicine” prima di essere fotografate. In empatia con i suoi soggetti, Davide Degano porta alla luce stati d’attesa, di sradicamento o di resistenza che appartengono alla storia personale e intima di chi viene fotografato, confluendo poi nella memoria collettiva.
Come ti sei avvicinato al mondo della fotografia?
Diciamo che la fotografia è sempre stata una delle mie passioni, sin da piccolo. Infatti, era sempre un mio “compito” quello di immortalare le feste di famiglia, come compleanni, comunioni, cresime eccetera. Inoltre sono sempre stato un’amante della street photography o diciamo dello stile fotogiornalistico americano, degli anni ’80 e ’70. Ero infatti affascinato da artisti come Winegard, Vivian Maier, Walker Evans, Saul Leiter and Gordon Parks. Mi affascinava l’uso drammatico del bianco e nero e la metodologia con la quale raccontavano storie attraverso le immagini.
In seguito sono partito per l’Australia, dove ho vissuto per tre anni, e lì ho trasformato questo hobby in professione. Ho iniziato a lavorare come assistente per vari fotografi di moda, fino a quando ho iniziato a ricevere le prime richieste. Nel giro di poco tempo sono riuscito a crearmi un piccolo network che mi ha permesso di mantenermi attraverso la fotografia. Ma è solo quando ho iniziato gli studi presso la KABK, dove mi sono appena laureato, che ho capito il valore del medium fotografico.
Mentre prima dell’inizio dei miei studi alla Royal Academy of Art pensavo al ruolo del fotoreporter come a un semplice testimone di un evento, sono diventato sempre più consapevole, man mano che avanzavo nei miei studi, dell’importanza di un approccio personale alle storie che cercavo di raccontare per mostrarne la loro complessità. Iniziando ad apprezzare l’importanza dei progetti a lungo termine, gradualmente mi sono allontanato da un’idea di fotogiornalismo che premia l’immagine scioccante di una sofferenza o di una tragedia. Ho imparato a rallentare il “ritmo”, apprezzare modi più lenti e riflessivi di raccontare storie.

Le tua fotografia è quasi sempre legata al racconto di un territorio. Da dove vieni e a quali territori ti senti legato?
Sì, esattamente. Io sono un siciliano nato e cresciuto al nord, in Friuli, in un piccolo paesino di campagna che confina con la Slovenia, chiamato Faedis (dove è nato e cresciuto mio padre). Inoltre mia nonna è colombiana, di Cali. Quindi, diciamo che sono queste le terre a cui sono legato “sentimentalmente”; in maniera particolare la Sicilia, anche se ho passato la maggior parte della mia infanzia al nord, a Faedis. Però, dopo il diploma ho viaggiato molto e ho vissuto per tre anni in Australia, e ora vivo da cinque anni in Olanda. Entrambe le esperienze sono state di fondamentale importanza nella mia crescita. Per questo mi piace definirmi un “local” di diverse realtà: Rometta (Sicilia), Faedis (Friuli), Melbourne (Australia) e l’Aia (Olanda).
Con la mia fotografia cerco di raccontare storie che mi sono “vicine”. Sono infatti contrario al fotografo avventuriero che cerca terre straniere ed esotiche, e utilizza quello che viene chiamato “fixer” per essere introdotto in tale ambienti, a lui estranei.
Raccontaci qualcosa di più del progetto Beyond the Land of Castles.
Il progetto nasce dalle mie difficoltà di ambientamento alla cultura olandese, specialmente nei primi due anni di accademia. Non ero soddisfatto dei lavori che facevo in Olanda, in quanto mi sentivo un’entità estranea al paesaggio che mi circondava. Per tanto, i miei lavori si fermavano sempre alla “superficie” delle cose. Una delle ragioni penso fosse legata al fatto che non parlo olandese. Nonostante quasi tutti parlino inglese, la percezione che la gente ha di te è completamente diversa se riesci a interagire utilizzando la lingua locale. Pertanto avevo ricominciato a viaggiare spesso in Italia, in Friuli, e a fotografare i luoghi della mia infanzia. Per un paio d’anni ho passato diversi mesi in Italia a produrre, e il resto del tempo in Olanda a riflettere su quello che stavo producendo.
Beyond the Land of Castles non è altro che una ricerca territoriale che vuole studiare l’importanza del concetto di “local” all’interno della nostra società moderna e globalizzata. Secondo me, la globalizzazione sta portando a una neutralizzazione delle culture, a favore di un modello “uguale per tutti”. Come conseguenza, c’è una perdita importante di cultura e tradizioni, specialmente quelle delle piccole realtà di paese. Attraverso il mio progetto voglio studiare l’importanza di tali peculiarità e l’importanza di riconoscere le differenze fra le varie culture.

Infatti penso sia proprio questo il punto in cui si sta perdendo la società moderna. Non siamo tutti uguali, anzi il contrario. Il fatto di poter riconoscere tali differenze ti permette di approcciare realtà completamente diverse dalla tua con una serenità e apertura mentale che altrimenti non puoi avere. Questa mia ricerca la faccio attraverso la memoria collettiva, per sfatare anche il preconcetto che le memorie del passato portano nostalgia e non progresso.
Come sei entrato in un campo rifugiati in Olanda e perché hai deciso di raccontarlo?
Essendo un emigrato e provenendo da una famiglia di immigrati, o comunque di gente che si è spostata dal posto nativo, sono sempre stato interessato a tale problematica. Non mi interessava, però, fotografare la disperazione e il dolore fisico di quello che chiamano il “viaggio della speranza”. Invece, ero interessato a capire come ci si sente quando la tua vita è in stand-by, nonostante la sicurezza e protezione offerte nei campi refugee olandesi.
Mi interessava capire le emozioni che una persona prova quando non è più in possesso della sua vita, ma al contrario deve dipendere da decisioni di tribunali, o comunque di “altri”. Al tempo, frequentavo diverse conferenze che trattavano l’argomento, e in una di queste ho incontrato Raul, il quale mi ha messo in contatto con il campo Refugee di Groeningen. Da lì in poi ho iniziato a visitare diversi campi refugee, fino a quando ho conosciuto Rajab e iniziato a creare un rapporto di amicizia, che ho cercato di tradurre attraverso le foto del mio progetto.

In che cosa consiste il progetto Awakati e in che modo è legato al tema delle origini?
Il progetto Awakati è una collaborazione nata in maniera spontanea. Ho fotografato Yaisi, la fondatrice del brand, per progetto personale legato alla mia tesi di laurea sul foto-ritratto. Ogni volta che fotografo qualcuno, il “dialogo” assume sempre un ruolo fondamentale. Posso dire che c’è stato subito il feeling giusto, e così mi ha proposto di scattare la nuova collezione del brand, che utilizza i pattern africani ed è una celebrazione di parte della sua cultura.
Per quanto mi riguarda, ero molto contento di essere stato coinvolto in tale progetto visto che comunque per me il continente africano rappresenta parte integrante della mia vita, sia per filosofia sia per il fatto che la mia compagna viene dalla Zambia. Inoltre, tale progetto si riconnette ai miei interessi e ai precedenti lavori che ho fatto per quanto riguarda la ricerca delle proprie origini e il tentativo di capire chi siamo.

Cosa ti affascina della fotografia di ritratto e come entri in relazione con i tuoi soggetti?
Magari la risposta “suona” un po’ scontata, però mi affascinano le persone e le storie che hanno da raccontare. Con le persone che ritraggo nasce tutto in maniera molto spontanea. Sono sinceramente spinto dal fatto che voglio conoscere la persona che sta di fronte alla macchina fotografica. O quantomeno, scavare un po’ la superficie delle cose. Tutte le mie sessioni sono caratterizzate dal “dialogo” e una costante ricerca di empatia con il soggetto. Per questo fotografo in medio e largo formato analogico: in questa maniera sono obbligato a cercare una connessione con la persona che fotografo.
Inoltre, non posso far vedere quello che sto fotografando, e ho trovato che è un gran vantaggio, poiché le persone che fotografo sono in qualche modo “costrette” a fidarsi di me e non sono più concentrate su come “vengono nella foto”. Anche se non sempre ci riesco, penso che sia fondamentale cercare questa “connessione” con il soggetto, per ogni tipo di foto-ritratto. Infatti, c’è sempre da considerare il fatto che c’è un terzo componente presente in questo triangolo, che è il viewer, il quale può contare solo sulle piccole informazioni che la foto offre, e che molto spesso possono essere staged, quindi non vere. Pertanto, ritengo che difficilmente un ritratto ti possa emozionare se non c’è stata una connessione fra il fotografo e la persona fotografata.
Nella mia tesi di laurea, parlo molto di foto-ritratto in quanto è la pratica fotografica che uso di più. Mi soffermo molto sul concetto di empatia. Ci deve essere empatia tra il fotografo e il soggetto, e la stessa deve essere suscitata nello sguardo del viewer. Così, il ritratto viene letto in maniera diversa, non convenzionale. Molto spesso ci limitiamo a leggere le informazioni che una foto ci presenta affidandoci ai vecchi dogmi, ovvero che la fotografia è una rappresentazione del reale. Facendo così, molto spesso non facciamo altro che analizzare in maniera quasi “matematica” un ritratto, dimenticandoci che abbiamo di fronte un essere umano.

In che cosa consiste il progetto The Perabò family?
Il progetto è nato un po’ per caso durante il mio secondo anno di accademia. Avevo iniziato a fotografare la vita giornaliera di Faedis, dove sono cresciuto. Assieme ad altri compagni di accademia, sono stato selezionato per rappresentare la Royal Academy al festival di fotogiornalismo in Perpignan, Francia. Durante la portfolio review Cheryl Newman mi ha parlato di We Feed the World, un progetto finanziato da Gaia Foundation e della quale era la curatrice della mostra a Londra.
Mi disse che era interessata alla famiglia Perabò e che sarebbe stato un bel progetto, se avessi deciso di portarlo avanti. Così ho fatto e mi è stata data l’opportunità di esporre a Londra, assieme ad altri fotografi del calibro di Martin Parr. Il progetto della famiglia Perabò parla sempre dell’importanza del locale e di come tali realtà cercano di sopravvivere nel mondo globalizzato. Rino Perabò, che ha un legame molto forte con la terra che lo circonda, è uno dei pochi contadini “vecchio stampo” rimasti che purtroppo stanno scomparendo.

Quali temi ti piacerebbe approfondire nel futuro?
Quando ho iniziato a lavorare al progetto Beyond the Land of Castles, al tempo stesso avevo iniziato un progetto sull’Italia post-coloniale. Ora vorrei concentrarmi su quel progetto, visto che sto pensando di iniziare un master che tratta tale argomento. Penso che sia una tematica molto importante specialmente per questo periodo storico, ma ancora più importante per il fatto che nell’educazione italiana tale problematica non viene trattata, o comunque solo marginalmente. Infatti, nella nostra educazione ci sono ancora molti segni del regime fascista, che sono ormai entrati nella nostra quotidianità.
Attraverso il mio progetto vorrei analizzare i comportamenti dell’Italia post fascista e di come tale cultura sia ancora fortemente presente nella nostra società. Non solo nei libri di scuola, ma anche nell’architettura e nei modi di dire/fare. Penso che le immagini abbiano un forte potere educativo. Pertanto sono interessato a ricreare o a riscrivere la storia post-coloniale italiana attraverso l’uso delle immagini.

