Luca Giorietto è un fotografo italiano attivo a livello internazionale, soprattutto nell’ambiente musicale alternative. Con il progetto #YES, Your Ego Sucks ha fotografato molti tra gli artisti rap e trap più influenti della scena italiana.
#YES coglie con spontaneità e introspezione il momento precedente all’esibizione dell’artista. I suoi ritratti giocano un forte contrasto con quello che è l’immaginario rap stereotipico a cui siamo abituati. Il mondo rap secondo Luca Giorietto sembra invece essere fatto di colori fluorescenti, come quelli delle pellicole Kodachrome, e di profondità di sguardi, simili ad una tela di Caravaggio.
Partiamo dal titolo del tuo progetto – Your Ego Sucks (trad. Il tuo ego fa schifo). È nato prima il titolo o il titolo è venuto da sé dopo aver scelto i soggetti?
Il titolo è nato contemporaneamente con i primi ritratti realizzati, ci tengo a sottolineare che non è un titolo dispregiativo ma celebrativo. Volevo qualcosa che ironizasse sullo stereotipo dello swag associato all’immaginario rap e nello stesso tempo lo valorizzasse con un’espressione potente/ diretta.

Ho visto che la tua fotografia parte da un background focalizzato su artisti e immaginari post rock/alternative/noise; da qui, come ti sei avvicinato quindi alla scena rap italiana?
Ascoltavo già alcuni artisti rap americani della vecchia scuola ma il nuovo rap italiano mi è arrivato grazie alla diffusione mainstream degli ultimi anni. E questa cosa per me ha rappresentato sicuramente ossigeno nuovo, è sempre bello mettersi in gioco in contesti diversi e vedere le cose con un occhio vergine rispetto ad una certa scena musicale in questo caso. È come se al contrario un fotografo che si è sempre più focalizzato sul rap cominciasse a lavorare con il mondo alternative, trovo il contrasto interessantissimo perché apre visioni fotografiche diverse.
Per la costruzione di #YES Your Ego Sucks, quali sono state le idee e le influenze a cui ti sei ispirato?
Sono molteplici e non riuscirei a sintetizzare in un’unica risposta. Però ti posso dire che sono influenzato da più settori e non solo dalla fotografia. Tra i fotografi che più amo cito sicuramente nomi molto diversi: Steve Gullick, Luigi Ghirri, B. Anthony Stewart. Poi Caravaggio, ma il cinema rappresenta per me una grande parte di tutto ciò da Peter Greenaway a Terry Gilliam, Powell e Pressburger, Brian De Palma, i film noir della Hollywood classica, la mia passione per i b-movies dimenticati (thriller e sci-fi) degli anni ’40 e ’50. I lavori dell’artista grafico Vaughan Oliver (e a proposito di questo vorrei aggiungere che vengo da un percorso fatto di poster creati con i collage che mi ha poi portato alla fotografia), John Tenniel, le tavole di Floyd Gottfredson, Al Taliaferro, Carl Barks, Sergio Asteriti e troppi altri.

Colpiscono molto i giochi di luci e ombre che hai creato, ma soprattutto i fondali dai colori fluorescenti e pop. L’ispirazione nasce dal backstage o è un’idea nata appositamente per #YES?
I giochi di luce provengono consciamente (e inconsciamente) dal mio immaginario legato a tante influenze come Caravaggio, che citavo precedentemente. Per quanto riguarda i colori “pop” ho sempre avuto un grande debole per le pellicole Kodachrome. Tutto ciò non è nato esclusivamente per questo progetto, è il mio stile rapportato al colore poiché in passato scattavo molto più in bianco e nero. Grazie a questo progetto ho riscoperto la bellezza e il potenziale dei colori.
Essendo un progetto nato nel mondo dei backstage dei concerti, qual è stata la tua relazione questi spazi e con i tempi ristretti a disposizione per scattare?
In realtà il progetto nasce inizialmente fuori dai backstage e successivamente per motivi di incastri è proseguito sia tramite alcuni ritratti per interviste realizzate negli uffici di Universal e Sony con il team di RapAdvisor sia poi principalmente nei backstage di singoli live e festival specifici. Non ho avuto problemi con i tempi e gli spazi, so adattarmi alla situazione anzi spesso i tempi ristretti e l’adrenalina aiutano nel mio caso la creatività!
Negli scatti che proponi, traspare una forte sincerità da parte dell’artista nel rivolgersi alla fotocamera. Le pose che vediamo sono state proposte da te oppure gli artisti hanno interpretato a modo loro la tua idea?
C’è stata sicuramente una collaborazione reciproca, ma di base sono io che propongo all’artista cosa mi piacerebbe vedere davanti l’obiettivo. Prediligo avere sempre un’idea di base anche semplice ma che funzioni per avere un risultato interessante. Uno dei ritratti più diretti a cui sono affezionato è quella di Izi mentre mangiava un panino nel backstage del Propaganda Festival a Milano. In quel caso ho solo chiesto a lui di continuare a mangiare mentre lo riprendevo in varie espressioni.
Con lo svolgersi di questo progetto è mutata la tua visione sul mondo del rap italiano o le tue impressioni sono rimaste immutate?
No affatto, il mio interesse per la scena rap si è amplificato avendo avuto modo di conoscere più artisti interessanti.
In futuro, quando si potranno fare i concerti, ci sono artisti con cui non hai mai scattato e con cui ti piacerebbe lavorare?
Due nomi mi vengono in mente ora: Sfera Ebbasta poiché è colui che ha portato il rap italiano a livelli pop anche oltreoceano è diventato un’icona del genere, Mahmood perché è esteticamente un soggetto davvero versatile con cui sperimentare. Basta vedere i suoi precedenti servizi fotografici e videoclip.



